martedì 5 maggio 2009

Santiago Sierra_BioPotere & Alienazione

Il lavoro di Santiago Sierra (1966, Madrid, Spagna. Vive e lavora a Città del Messico, Messico) è una critica estrema verso il sistema economico capitalista e contro le conseguenti disuguaglianze di classe e di razza da esso generate. Sierra adopera le tecniche artistiche del minimalismo, dell’arte concettuale e della body art, riutilizzandole non a fini meramente estetici, bensì come strumenti che consentono di provocare episodi finalizzati ad intensificare la rappresentazione delle discrepanze economico-politiche presenti nelle aree geografiche dove sono situate le istituzioni artistiche che lo ospitano; costringendo, così, in ultima istanza, il pubblico ad assumere una presa di posizione ideologica netta nei loro riguardi.
Per queste sue performance sui generis l’artista seleziona persone provenienti da ambienti marginali, le quali acconsentono – a causa delle loro difficili condizioni di vita, ai limiti della sopravvivenza – a prendere parte ai suoi interventi in cambio di un compenso. L’accettazione di questi emarginati a fare da “materiale scultoreo” sottostando, così, al comportamento che l’artista esige da loro in cambio di una remunerazione che non supera mai gli standard salariali della zona in cui vivono, manifesta senza alcuna metafora, come il lavoratore all’interno del sistema capitalistico sia costretto a farsi manovrare, vendendo il suo tempo ed il suo corpo, come se fosse una cosa, per poter sopravvivere.
Per A Person Paid for 360 Continuous Working Hours (2000) , il suo intervento al P.S.1. Contemporary Art Center di New York, Sierra fece innalzare una parete diagonale di mattoni che suddividesse una delle sale della galleria in due spazi: uno destinato alla segregazione totale – se si fa eccezione dell’apertura di un buco quadrato per la consegna del cibo – di un operaio il quale aveva accettato, senza sapere in anticipo di cosa si trattasse, di lavorare per 360 ore continue per un compenso pari a dieci dollari ad ora; l’altra metà dello spazio era, invece, adibita al pubblico, per l’osservazione di questa azione di strumentalizzazione del corpo e di vendita del proprio tempo privato.
Nel “comportamento” Workers Who Cannot Be Paid, Remunerated To Reamin Inside Cardboard Boxes (2000) realizzato al Kunst Werk di Berlino, sei profughi provenienti dalla Cecenia hanno accettato di collocarsi entro altrettante scatole di cartone quattro ore al giorno e per la durata di sei settimane, riscuotendo il salario clandestinamente, a causa del loro status di esiliati politici. La legislazione tedesca, infatti, prevede per gli esiliati una retribuzione pari a circa 40 euro al mese, e inoltre impedisce agli stessi profughi di lavorare, minacciandoli di rispedirli al loro paese d’origine.
160 cm Line Tattooed on 4 People (2000) è una performance eseguita al Museo di Arte Contemporanea di Salamanca (Spagna), dove i performer sono quattro donne al contempo tossicodipendenti e prostitute, reclutate al prezzo di una iniezione di eroina, per dare il loro assenso a farsi tatuare sulla schiena. Solitamente esse ricavano tra i 15 e i 17 euro per fellatio, a cospetto del prezzo di circa 67 euro per una dose di eroina.
Alla 49° Biennale di Venezia (2001) Santiago Sierra, constatando che nella città di Venezia c’è un grande numero di venditori ambulanti illegali, provenienti da varie parti del mondo, come Senegal, Bangladesh, Cina e Italia meridionale; ha lanciato un annuncio al fine di reclutare 200 immigrati a condizione che i loro capelli fossero scuri di natura, e che accettassero di farseli dipingere di biondo, riscuotendo la somma – decisa dalla stessa istituzione Biennale - di 120.000 lire. Il procedimento della tintura dei capelli è stato eseguito in maniera collettiva, dietro la porta chiusa di un deposito situato nell’Arsenale, durante il vernissage della Biennale. Sebbene il numero delle persone originariamente selezionate per prendere parte a questa performance era di 200, alla fine è stato ridotto a 133 , a causa dell’arrivo in massa di immigrati, che ha reso, così, difficoltoso calcolare con precisione quante persone fossero già entrate nella sala. L’opera pertanto ha preso il titolo di 133 Persons Paid to Have their Hair Dyed Blond (2001).
Per il suo contributo alla 50° Biennale di Venezia (2003) Sierra ha puntato l’indice, con il suo caratteristico azionismo radicale, sullo spazio adibito ad essere contenitore della sua opera: il padiglione riservato a rappresentare la nazione Spagna ai Giardini della Biennale – area, quest’ultima, da sempre adibita alle partecipazioni statali. L’artista prendendo le mosse dal presupposto di fondo secondo il quale i padiglioni nazionali sono una palese metafora dell’ideologia nazionalistica del XIX secolo, interviene su quello che dovrebbe essere il “contenitore” del suo lavoro rendendolo esso stesso materiale semantico di partenza per le sue opere: blinda il padiglione spagnolo (lato anteriore) con una cortina di mattoni e ne vieta l’accesso a tutti i visitatori non spagnoli (lato posteriore) per Muro cerrando un espacio; poi, per Palabra tapada, con un semplice espediente concettuale, impacchetta la parola “Spagna” (sulla facciata) con della plastica nera e scotsch d’imballaggio.
L’interno di Muro cerrando un espacio è vuoto tranne le macerie della costruzione del muro di sbarramento che Sierra ha voluto lasciare lì, come fosse una sorta di svelamento della realtà. Molti visitatori non spagnoli, bloccati dalle guardie alla porta di entrata nel retro del padiglione (ingresso consentito solo ai cittadini spagnoli) hanno tentato di entrare con vari stratagemmi. L’artista ha voluto in questo modo evidenziare le ambivalenze tra la curiosità di vedere l'interno, l'insofferenza per il divieto da parte del visitatore e, al tempo stesso, il capovolgimento intenzionale del lavoro che è quello di escludere invece che accogliere il visitatore. Muro cerrando un espacio intende

rappresentare lo sbarramento reale dentro i confini territoriali della nazione, le barriere visibili e invisibili che vengono stabilite tra le persone e al tempo stesso sottolineare tutti i tentativi che, spesso, vengono fatti per poter entrare dentro uno stato e di cui la clandestinità è uno dei fenomeni più forti (C - , Macrì 2003)


In Palabra tapada Santiago Sierra, impacchettando-omettendo l’etichetta “Spagna”, crea nello spettatore uno stato di estraniamennto volto a svelare le connotazioni storico-simboliche assolutilizzate dall’ideologia nazionalista, di cui il significante “Spagna” - sempre “disponibile” per una riconnotazione antinazionalista - è “vittima” inconsapevole.
I minimali interventi di Sierra sul/nel padiglione Spagna mirano a radicalizzare la politica delle ideologie nazionaliste – anche se il referente originario del lavoro è lo stato spagnolo, l’opera estende il suo raggio d’azione a qualsiasi governo in cui vige una determinata politica reazionaria – focalizzando l’attenzione su quello che è lo strumento più drammaticamente utilizzato: l’esclusione dell’altro; la quale viene messa in atto attraverso quello stratagemma politico-istituzionale che l’artista giustamente chiama “terrorismo psicologico dell’invasione degli immigrati” (ib.).
Di questo fenomeno Santiago Sierra vuole anche smascherarne le subdole interrelazioni con il corporativismo dell’economia cosiddetta neo-liberista. E a questo scopo 1 Maggio 2003 nello spazio interno del Padiglione spagnolo ha luogo la performance, in assenza di pubblico, Hooded woman seated facing the wall. Per un ora una donna con un cappuccio nero in testa è stata messa in castigo, costretta a stare immobile ed in silenzio, con lo sguardo rivolto verso una parete dell’interno dell’edificio, in cambio di un magro compenso economico. Questo “comportamento” che richiama le pratiche della Body Art , in seguito documentato con fotografie e video, insiste sul concetto del lavoro salariato visto come tecnica di dominazione-punizione di cui l’ideologia della politica economica capitalista si serve per “regolamentare”, tenere sotto controllo, l’individuo.

sabato 21 marzo 2009

Doris Salcedo_LuttoViolenzaPotere

Doris Salcedo

Doris Salcedo (1958, Bogotà. Vive a lavora a Bogotà) ha vissuto e vive in pieno le contraddizioni che affliggono la sua nazione, rimanendo attaccata, perciò, sin dagli esordi della sua carriera al contesto colombiano. La Colombia è un paese che vessa in uno stato di caos ed d’incertezza da decadi, dopo il mai paco shock della guerra civile; e che è deturpato dalle più moderne realtà della produzione e del traffico di droga.

Dai primi anni ’90 ad oggi il lavoro di Salcedo, attraverso originali procedimenti scultoreo-installativi rivolge la sua attenzione verso le forme di violenza che attanagliano la vita ordinaria del suo paese, nello sforzo di comprenderne e di visualizzarne gli effetti deleteri sulla singola persona, in quanto impotente testimone.

Più che “raccontare” la violenza in quanto tale a Salcedo interessa narrare, elaborandole con procedimenti psicoanalitici, le esperienze traumatiche di chi vive sulla propria pelle, sia singolarmente che collettivamente, il dramma del lutto. Pertanto le sue installazioni, avendo di mira la comunicazione della tragica esperienza della perdita (dell’abbandono), hanno come protagonista la figura dell’assenza: l’unica traccia di una memoria sofferente.

Quasi sempre le opere di Doris Salcedo prendono il via dall’ascolto delle storie da incubo raccontate da chi è sopravvissuto alla violenza e che è stato, dunque, al tempo stesso, testimone della scomparsa e dell’assassinio di persone a lui care. Pezzi di vecchia mobilia, logore scarpe usate, stralci di tessuti, frammenti di ossa, ecc., assolvono, assieme al cemento, a l’acciaio e ad al piombo, in un violento contrasto e/o accostamento, al ruolo di memento mori.

Nelle installazioni scultoree di Doris Salcedo non ci sono figure umane ma solo oggetti, ma il corpo non è per questo meno presente, anzi è proprio l’assenza di diretti referenti al corpo umano che rendono assai più pervasiva la presenza dello stesso: un corpo violato, frammentato, minaccioso, asfissiato, imprigionato, ecc.; muto testimone del male subito.

Untitled (1989-98) è una serie di opere ottenuti da mobili, logorati dall’uso, che vengono parzialmente riempiti di cemento. Frammenti calcificati di sedie, cassettoni, armadi o letti vengono assemblati e talvolta uniti a indumenti, in parte e quasi sempre bruciati, che stanno lì come testimoni silenziosi delle persone a cui appartenevano.

L’installazione Atrabiliarios (1991-96) è composta da file di nicchie nascoste da seta opaca e incassate nel muro, le quali contengono scarpe abbandonate, non nuove e non sempre appaiate. Questo fa sospettare che qualcosa di grave sia successo ai proprietari: presenze spettrali che evocano una vita umana scomparsa.

Per quanto riguarda la serie La casa vidua (1992-95), il nome richiama evidentemente a costruzioni che hanno perso chi vi abitava, e che d’ora in poi saranno “marchiate” da questa assenza, come , appunto, vedove. Si tratta di luoghi in cui è ormai impossibile abitare, costruiti con porte vecchie e pezzi di mobili sia in legno che in ferro.

Nel 1990 l’artista colombiana ha prodotto una serie di lavori che facevano diretto riferimento al massacro di lavoratori avvenuto nel 1988 presso le piantagioni di banana di La Honduras e La Negra; per il quale, gli uomini furono trascinati via dai loro letti e uccisi di fronte alle loro famiglie, sulle soglie delle loro case. Per la connessa installazione Doris Salcedo ha collocato una serie di reti di letti in ferro appoggiati sulla parete della galleria e mucchi di camicie piegate e appoggiate a terra, con un palo che le attraversava. Ancora una volta gli oggetti, nell’opera di Salcedo, diventano figure metonimiche per il corpo di un soggetto che non c’è più, la cui assenza si inscrive dolorosamente e indelebilmente nella memoria dei sui cari.

A Documenta 11 (2002) Salcedo ha contribuito con due installazioni Tenebrae, noviembre 7, 1985 (1999-200), e Noviembre 6 (2001) , entrambe si riferiscono allo stesso crudele evento: il 6 novembre 1985 un commando del movimento di guerriglieri colombiani M-19 ha fatto irruzione alla corte suprema di Bogotà, prendendo in ostaggio tutte le persone presenti nell’edificio. Senza alcun tentativo, vero e proprio, di negoziazione, l’esercito e le forze di polizia di stato hanno attaccato il palazzo con carri armati ed elicotteri, ecc.; dandolo alle fiamme. In tutto, morirono 53 tra i impiegati del dipartimento di giustizia e clienti; 11 giudici della corte e, tutti i 35 guerriglieri.

Noviembre 6 è una serie di sedie fatte di acciaio, legno, resina e piombo, sparpagliate nel luogo espositivo a loro adibito; non si tratta di ready-made puri bensì “aiutati”, le sedie e/o le loro componenti o sono parzialmente carbonizzate o deformate ed incastrate l’una nell’altra; a richiamare pezzi-frammenti di carne umana esplosa accatastati-intrecciati come il sinistro fato ha deciso.

Tenebrae, noviembre 7, 1985 consiste di uno spazio riempito parzialmente da pezzi di mobili carbonizzati accatastati l’uno sull’altro , e attraversato dal prolungamento minaccioso di due delle gambe di sedie deposte al pavimento; in tal modo è stato creato un nuovo ambiente; il quale, come chiaramente il titolo ci dice, rimanda al dove e al quando il dramma si è consumato. Dunque, se da una parte siamo invitati a vedere le sedie in quanto resti-frammenti dell’atroce evento, dall’altra questa stessa visione è possibile solo impedendoci l’accesso alla stanza che raduna, appunto le sedie di legno: lo spettatore è costretto ad assolvere al ruolo di impotente testimone, con un conseguente disagio morale non indifferente, e forse irrisolvibile.